Premessa

Non è un caso se ormai è sempre più frequente il ricorso da parte delle aziende alla pratica del distacco del lavoratore. Trattasi di uno strumento volto a rispondere ad esigenze di flessibilità, specializzazione ed economicità organizzativa delle imprese. 
Difatti, la mobilità dei lavoratori costituisce un’esigenza sempre più richiesta dalle imprese, sia per fronteggiare momenti di crisi, come quello che stiamo vivendo nell’ultimo periodo, che semplicemente al fine di adottare forme elastiche di organizzazione del lavoro. 
Pertanto, quello del distacco costituisce un interessante istituto poiché consente una flessibilità nella gestione del lavoro, non altrimenti attuabile.

L’abuso del distacco dei lavoratori nella recente giurisprudenza della Corte di Cassazione.

Visto “l’abuso” che recentemente si sta facendo dell’istituto de quo, difettando sovente gli stessi requisiti di legittimità previsti dal legislatore, ex art. 30, comma 1, D.Lgs. n. 276/2003, la Suprema Corte è stata chiamata a pronunciarsi nel procedimento a carico di una società a responsabilità limitata che aveva fatto ricorso ad alcuni lavoratori distaccati da altra azienda, rivelatasi poi essere un’ entità fittizia, incapace di adempiere gli oneri previdenziali e fiscali.
La Cassazione, con la sentenza n. 23921 del 12.08.2020, al termine dei lavori, ha dichiarato inammissibile il ricorso formulato dalla società, confermandone la responsabilità per l’illecito amministrativo previsto dall’articolo 24 del decreto 231/2001: la società aveva infatti utilizzato, attraverso lo strumento del distacco, ventidue dipendenti di un’ altra Srl; quest’ultima era risultata poi essere una “scatola vuota”, priva di mezzi propri e, soprattutto, aveva evitato di versare tutti i contributi previsti. 
La prima società aveva così potuto aumentare l’organico aziendale senza dovere sostenere costi aggiuntivi di tipo previdenziale o fiscale, inducendo così in errore l’ INPS.
Ponendo in essere questa condotta la società si è macchiata dell’ipotesi di reato di cui all’art. 640, 2 comma c.p., ovvero di truffa ai danni dello stato poichè “il profitto del reato di truffa consiste proprio nel risparmio contributivo e previdenziale che l’imputato ha conseguito tramite il fittizio distacco facendo figurare, contrariamente al vero, che i lavoratori fossero in distacco presso la società (omissis) dalla (omissis)”.
La difesa, dal canto suo, aveva invece chiesto l’annullamento della condanna perché i fatti accertati, in realtà, darebbero luogo non tanto ad una violazione dell’art. 640, 2 comma c.p., quanto piuttosto alla più lieve contravvenzione prevista e punita dagli artt. 18 e 30 del Dlgs 276/03, finalizzata alla corretta applicazione dell’istituto del distacco.
Gli Ermellini, tuttavia, hanno statuito in senso inverso, chiarendo che non è ravvisabile alcun rapporto di identità tra le condotte descritte dagli artt. 18 e 30 D.lgs. 276/2003 e quelle di cui all’ art. 640 comma 2 cod. pen., dato che le norme di cui alla c.d. Legge Biagi “hanno come obiettivo esclusivamente quello di tutelare il lavoratore, lasciando fuori dal loro ambito di applicazione quei comportamenti finalizzati all’elusione della contribuzione”.
Le condotte contestate nel caso di specie, invece, “non possono che rientrare nell’ambito di applicazione dell’art. 640 comma 2 n.1 cod. pen., in quanto la finalità della fittizia interposizione è proprio quella di procurarsi un ingiusto profitto (con corrispondente danno per gli enti previdenziali) consistente nel risparmio contributivo, del tutto differente da quella (eventuale) del mancato rispetto della normativa posta a tutela dei lavoratori”.

Conclusioni.

Alla luce delle riflessioni che precedono, dunque, può affermarsi che tutt’altro discorso deve essere fatto quando si agisce allo scopo di porre in essere un’ipotesi di truffa realizzata attraverso il distacco dei lavoratori, dove la finalità è quella di assicurarsi un ingiusto profitto, con danno corrispondente agli enti previdenziali di riferimento, consistente nel risparmio contributivo; finalità, questa, del tutto diversa da quella del mancato rispetto delle misure a protezione dei lavoratori.
Bisogna pertanto che la governance societaria adotti le dovute precauzioni in ordine all’impiego dei lavoratori all’interno della propria compagine operativa al fine di limitare il rischio di incorrere, da apicale, in un reato previsto dal catalogo del D.lgs. 231/2001. 

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