Premessa
La Cassazione penale, con la sentenza n. 9806 del 11.03.2021, ha affermato che non integra il reato di frode processuale, la condotta del datore che altera lo stato dei luoghi in cui è occorso un sinistro ai suoi dipendenti per nascondere le prove della sua responsabilità, configurandosi in tal caso l’esimente della necessità di salvarsi da un grave rischio per la libertà e l’onore di cui all’art. 384 c.p.
Il caso di specie e la pronuncia della Suprema Corte
Nel caso in esame, l’amministratore di una società di trasporti era stato condannato per lesioni colpose, minaccia e frode processuale (I) per le lesioni subite da due suoi dipendenti in occasione di distinti incidenti cagionati dall’omessa osservanza delle norme antinfortunistiche; (II) per aver, in occasione di uno dei due incidenti e prima dell’intervento dei soccorsi e degli inquirenti, modificato lo stato dei luoghi, minacciando altresì alcuni lavoratori per indurli a rilasciare dichiarazioni a sé favorevoli.
Confermando la condanna per gli altri reati, la Suprema Corte ha escluso la sussistenza della frode processuale.
L’esame del caso di specie richiede, innanzitutto, di approfondire la fattispecie criminosa in rilievo. Il reato di frode processuale, ai sensi dell’art. 374 c.p., punisce la condotta di chi, nel corso di un procedimento civile o amministrativo al fine di trarre in inganno il giudice in un atto d’ispezione o di esperimento giudiziale, ovvero il perito nella esecuzione di una perizia, immuta artificiosamente lo stato dei luoghi o delle cose o delle persone. La stessa disposizione si applica se il fatto è commesso nel corso di un procedimento penale, anche se pendente davanti alla Corte Penale Internazionale.
Il bene giuridico tutelato dalla norma è, evidentemente, il normale ed efficace funzionamento dell’amministrazione della giustizia. Essa mira, infatti, ad assicurare la genuinità delle fonti del convincimento del giudice in ordine agli elementi di prova che si possono desumere da alcune operazioni processuali. Autore del reato può essere chiunque, anche un soggetto estraneo al rapporto processuale, mentre l’elemento materiale consiste in un’immutazione artificiosa la quale, come tassativamente indicato dal testo letterale della norma, deve cadere a) sullo stato dei luoghi, b) sullo stato delle cose, c) sullo stato delle persone. Tale immutazione deve essere diretta a trarre in inganno il giudice nelle ispezioni e negli esperimenti giudiziali, e il perito nell’esecuzione delle operazioni peritali. Pertanto, non v’è dubbio che per l’esistenza del dolo, oltre alla volontà di compiere l’immutazione occorra anche il fine specifico di trarre in inganno il giudice o il perito.
Con la sentenza n. 9806 del 11.03.2021, la Cassazione ha affermato che la disposizione di cui all’art. 384 c.p. delinea, sulla scorta di un recente orientamento, una causa di esclusione della colpevolezza basata “sulla valutazione della situazione soggettiva in cui versa l’agente a fronte del pericolo inevitabile di un nocumento per la propria libertà o per il proprio onore, tale da rendere inesigibile un comportamento conforme al precetto delle norme tassativamente evocate dal primo comma dell’art. 384 c.p., ma senza escludere il disvalore oggettivo del fatto tipico”. Pertanto, all’agente che abbia posto in essere il mutamento dei luoghi con il fine di scongiurare un pericolo inevitabile di un nocumento per la propria libertà o per il proprio onore, si applica l’esimente ex art. 384 c.p.
Per la sentenza detta circostanza ricorre laddove un datore di lavoro, nell’immediatezza di un sinistro occorso ad un proprio dipendente, modifichi i luoghi per evitare di vedersi attribuire la responsabilità per le conseguenze subite dal lavoratore.
Pertanto, l’esimente in oggetto “deve ritenersi applicabile anche quando lo stato di pericolo sia stato cagionato volontariamente dall’agente e segnatamente nell’ipotesi in cui abbia commesso uno degli illeciti penali elencati nel primo comma dell’art. 384 c.p.”.
Conclusioni
Secondo i Giudici di legittimità è emerso, dunque, in maniera inequivocabile il rapporto di immediata consequenzialità tra l’incidente occorso sul luogo di lavoro e il pericolo per l’imputato di vedersi attribuire la responsabilità per le conseguenze subite dal dipendente. Inoltre, è indubitabile che egli fosse perfettamente consapevole del mancato rispetto delle norme antinfortunistiche, per cui il suo comportamento è risultato coerente con il fine di evitare la condanna per quanto accaduto.
Sulla base di tali argomentazioni, la Suprema Corte ha accolto il ricorso dell’imputato e, applicando l’esimente di cui all’art. 384 c.p., ha annullato senza rinvio la sentenza impugnata limitatamente al reato di frode processuale ex art. 374 c.p.
Il rispetto della normativa sulla sicurezza sul lavoro e in particolare delle norme antinfortunistiche è un dovere del datore di lavoro.
In tema di compliance aziendale risulta, dunque, di fondamentale importanza l’adozione, da parte dell’impresa, del Modello di organizzazione, gestione e controllo previsto e disciplinato dal d.lgs. 231/2001, che permette all’impresa, in primo luogo di evitare rischi per la salute e la sicurezza dei lavoratori, ma anche di non rischiare di incorrere in sanzioni (pecuniarie o interdittive) con potenziali gravissimi danni patrimoniali e d’immagine all’azienda.