Premessa

Nell’ambito della più ampia azione di prevenzione e lotta al contagio da virus Covid – 19 nei luoghi di lavoro, il 6 aprile 2021 è stato sottoscritto il “Protocollo Nazionale per la realizzazione dei piani aziendali finalizzati all’ attivazione di punti straordinari di vaccinazione anti SARS-CoV-2/ Covid-19 nei luoghi di lavoro”, adottato in forza delle direttive impartite dai ministeri del Lavoro e della Salute. 
Il protocollo è stato sottoscritto anche dal ministero delle Politiche Sociali, nonché da Confindustria, da Abi e da Confprofessioni. E’ composto da tredici argomenti e chiarisce i comportamenti che il datore di lavoro deve adottare sia dal punto di vista della prevenzione che della gestione aziendale in caso di contagio. In particolare, specifica quali sono le informazioni da fornire ai dipendenti, le modalità di ingresso in azienda di dipendenti e fornitori esterni, la sanificazione, la pulizia, l’ igiene personale, i dispositivi di protezione, la gestione degli spazi comuni, l’organizzazione del lavoro, eventi e formazione, la gestione di una persona sintomatica in azienda, la sorveglianza sanitaria e, non in ultimo, l’aggiornamento del protocollo di regolamentazione attraverso un continuo monitoraggio di ogni anzidetta misura e della sua efficacia. 
Esso andrà ad integrare il già esistente protocollo sulla salute e sicurezza nei luoghi di lavoro e avrà come obiettivo quello di rendere più sicura la riapertura di ogni attività commerciale e produttiva presente sul territorio nazionale, accrescendo il livello di sicurezza negli ambienti lavorativi.

Modalità di attivazione dei piani aziendali

Una volta compresi gli obiettivi della recente normativa, occorre soffermarsi sulle concrete modalità di attivazione dei piani aziendali da essa previsti e sui costi a carico del datore di lavoro.
I datori di lavoro, una volta adeguata l’azienda al nuovo protocollo, potranno proporre all’ ASL di riferimento il proprio piano aziendale per predisporre punti straordinari di vaccinazione contro il Covid-19 nei luoghi di lavoro e durante le ore di lavoro medesime. 
La somministrazione dei vaccini, tuttavia, potrà avvenire non solo e necessariamente nei locali dell’azienda (che, si badi, dovranno essere idonei pur sempre a rispettare i requisiti minimi di sicurezza definiti con le “indicazioni ad interim per la vaccinazione anti – SARS -COV-2/Covid 19 nei luoghi di lavoro”), ma, in alternativa, presso strutture sanitarie private, previa sottoscrizione di una convenzione con il datore di lavoro e, in questo caso, il costo sarà a loro carico, ad eccezione dei vaccini che restano a carico del Sistema Sanitario Regionale.
Tuttavia occorre specificare che l’azienda che non è tenuta alla nomina del medico competente e non può ricorrere a privati, potrà far ricorso all’iniziativa vaccinale pubblica e, di conseguenza, alle strutture sanitarie dell’ INAIL, su cui graverà ogni onere. 

L’ azienda può obbligare i lavoratori a vaccinarsi?

A prescindere dalle modalità, dai luoghi e dai costi di somministrazione, che verranno di volta in volta identificati dal datore di lavoro a seconda del caso di specie aziendale, il Protocollo Nazionale chiarisce quali sono le informazioni e la formazione da fornire ai dipendenti, stabilendo il concreto perimetro di azione del Protocollo Nazionale e del relativo piano aziendale.
Il Protocollo Nazionale, infatti, stabilisce da subito che il vaccino sarà inoculato alle lavoratrici e ai lavoratori, nonché agli stessi datori di lavoro, che ne faranno espressa richiesta. 
Sul punto, si fa riferimento al Testo Unico della Sicurezza sul Lavoro che, al comma 2 dell’art. 279, impone all’azienda, su conforme parere del medico competente, la messa a disposizione di vaccini efficaci per i lavoratori non immuni all’agente patogeno Covid – 19. 

Dunque la “messa a disposizione” del vaccino contro il Covid-19 non vale di per sé sola a rendere obbligatoria per i lavoratori la sottoposizione a tale soministrazione. Tuttavia l’ art. 279 TUSL non si limita a prescrivere “la messa a disposizione di vaccini efficaci”, ma impone, altresì, “l’ allontanamento temporaneo del lavoratore secondo le procedure dell’articolo 42”. E l’art. 42 stabilisce che il datore di lavoro attua le misure indicate dal medico competente e qualora le stesse prevedano un’inidoneità alla mansione specifica adibisce il lavoratore, ove possibile, a mansioni equivalenti o, in difetto, a mansioni inferiori garantendo il trattamento corrispondente alle mansioni di provenienza.
Il datore di lavoro, pertanto, sarà obbligato, qualora ciò sia necessario per garantire la sicurezza dei propri dipendenti e delle persone che con questi entrano in contatto, ad utilizzare nelle mansioni a rischio i lavoratori che abbiano accettato di vaccinarsi. Il rifiuto della vaccinazione, pur non dando luogo a responsabilità disciplinare, determina comunque l’obbligo in capo al datore di lavoro di utilizzare il lavoratore in diverse mansioni, o in mancanza di queste di sospenderlo senza retribuzione, in attesa che cessi la situazione di rischio.
Ciò posto, sebbene per la generalità dei lavoratori il legislatore ha confermato la volontarietà dell’adesione alla somministrazione del vaccino, lo stesso, con l’art. 4 del D.L. n. 44 del 1° aprile 2021, ha introdotto l’obbligo di sottoporsi alla vaccinazione per la prevenzione dell’infezione da Covid – 19 per i soli esercenti le professioni sanitarie e per gli operatori di interesse sanitario che svolgono la loro attività nelle strutture sanitarie, sociosanitarie e socio-assistenziali, pubbliche e private, farmacie, parafarmacie e studi professionali.
Si precisa, ad ogni buon conto, che tale obbligo è imposto fino alla completa attuazione del Piano strategico nazionale dei vaccini per la prevenzione delle infezioni da Covid – 19, e comunque non oltre il 31 dicembre 2021.
L’art. 4 del D.L. n. 44/2021 disciplina, altresì, una dettagliata procedura per la sua concreta operatività, oltre che per l’adozione di specifiche misure in caso di inottemperanza. Infatti, l’adozione dell’atto di accertamento dell’inadempimento dell’obbligo vaccinale avviene da parte dell’ASL e determina la sospensione dal diritto di svolgere prestazioni o mansioni che implichino contatti interpersonali o comportino il rischio di diffusione del contagio fino all’assolvimento dell’obbligo vaccinale ovvero fino al completamento del Piano vaccinale nazionale, e comunque non oltre il 31 dicembre 2021.
A seguito di tale sospensione, come poc’anzi specificato, al datore di lavoro è stato riconosciuto il potere di adibire il lavoratore che ha rifiutato la vaccinazione, ove possibile, a mansioni anche inferiore, con il trattamento corrispondente alle mansioni esercitate. Se però l’assegnazione a mansioni diverse per il periodo di sospensione non fosse possibile, al lavoratore interessato non sarà corrisposta la retribuzione.

Conclusioni: la ricollocazione del lavoratore che non può o non vuole vaccinarsi

Nel panorama aziendale come modificato alla luce delle recenti normative legate all’emergenza sanitaria in corso, insorgono soventi le problematiche legate alla ricollocazione di quelle categorie di lavoratori che non vogliono o non possono vaccinarsi. 
Da anni la Cassazione dice che l’obbligo di “repechage”, ovvero l’obbligo per il datore di lavoro, prima di procedere al licenziamento, di vagliare tutte le possibilità di ricollocazione all’interno dell’azienda del lavoratore divenuto inidoneo alle mansioni assegnategli, non può ritenersi violato quando l’ipotetica possibilità di ricollocazione del lavoratore nella compagine aziendale non è compatibile con il concreto assetto organizzativo stabilito. 
Ma è proprio in questa nuova ottica, maturata consequenzialmente all’ emergenza epidemiologica, del lavoro inteso in senso ancor più “flessibile” ed “intelligente” che non può escludersi aprioristicamente una valida alternativa al licenziamento, da rinvenirsi certamente nell’adozione di misure tecniche, organizzative, procedurali contro il rischio Covid – 19 da indicare nel DVR a tutela dei lavoratori, primi fa tutti quei soggetti che abbiano controindicazioni al vaccino anti Covid-19.
Né può trascurarsi, infine, che, fino alla cessazione dello stato di emergenza epidemiologica da Covid-19, il decreto Rilancio (decreto legge n. 34/2020) riconosce ai lavoratori fragili il diritto allo smart working.
In effetti il legislatore precisa che è opportuno non solo incentivare lo smart working in ogni sua forma per le mansioni che possono essere svolte da remoto, in quanto utile strumento di prevenzione, ma anche garantire contestualmente adeguate condizioni di supporto al lavoratore (assistenza nell’uso delle apparecchiature, modulazione dei tempi di lavoro e delle pause).
Per le attività che invece devono necessariamente svolgersi in presenza, devono essere limitati al massimo gli spostamenti all’interno dei siti e contingentato l’accesso agli spazi comuni, anche attraverso un piano di turnazione che punti a diminuire il più possibile i contatti.
Può inoltre rappresentare un’ulteriore alternativa al lavoro in presenza, secondo le linee guida dell’INAIL, il ricorso agli ammortizzatori sociali, alle ferie arretrate e ai congedi retribuiti.

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