I delitti di bancarotta puniscono le condotte di chi, agendo in contesti imprenditoriali, sia in qualità di imprenditore, sia come amministratore, direttore generale, sindaco o liquidatore di società dichiarate fallite, violi in qualche modo le regole poste a presidio degli operatori del mercato.
Il regio decreto n. 267/42 ha subito, nel corso del tempo, modifiche sostanziali che ne hanno mutato la ratio ispiratrice: si è passati, infatti, da un sistema che si difendeva espellendo l’imprenditore decotto dal mercato, ad uno che, ribaltando completamente la prospettiva, predispone di strumenti di ausilio all’imprenditore in crisi, chiamando lo Stato ad intervenire in tali particolari contingenze.
In ragione di questo cambio di passo è apparso discusso anche il bene giuridico tutelato: col cambiare di prospettiva si è ritenuto che oggetto di tutela non più, o almeno non solo, la garanzia patrimoniale dei creditori ex art. 2741 c.c., ma che ad essere protetto fosse il superiore interesse statuale all’integrità del mercato e dell’economia.
Va anticipato sin dalle premesse, inoltre, che questo stato di cose non muta con l’introduzione del Codice della Crisi di Impresa che, pur se prevede la sostituzione del termine “fallimento” con “liquidazione giudiziale” non intacca la rilevanza penale delle condotte o la continuità normativa delle fattispecie, ma si incasella perfettamente nella tendenza a sostenere l’imprenditore in crisi.
Il contesto. I delitti di bancarotta.
I delitti di bancarotta, propria e impropria, si atteggiano a norme a fattispecie alternative avendo il legislatore selezionato diverse condotte attraverso le quali il reato può perfezionarsi.
Potendosi assimilare le ipotesi di bancarotta impropria a quelle commesse dal fallito – atteso l’esplicito rinvio normativo – gli articoli 216 e 217 r.d. 267/42 distinguono le fattispecie di bancarotta fraudolenta da quella semplice, a seconda che gli atti distrattivi del patrimonio avvengano al fine di arrecare pregiudizio ai creditori o non rendere possibile la ricostruzione del patrimonio oppure consistano in semplici atti di avventata dissipazione patrimoniale.
Tanto la bancarotta semplice quanto quella fraudolenta possono realizzarsi in una fase precedente alla dichiarazione di fallimento o durante la relativa procedura.
In entrambe le ipotesi assume rilievo centrale la sentenza dichiarativa di fallimento – oggi di liquidazione giudiziale – che ha canalizzato l’attenzione degli interpreti quanto alla sua natura di elemento costitutivo del delitto piuttosto che di condizione obiettiva di punibilità, portando con sé questa distinzione importanti implicazioni in termini di individuazione di luogo e tempo del reato, di prescrizione e di estensione del fallimento ad altri soggetti.
Tanto premesso, nei delitti di bancarotta può agevolmente operarsi una preliminare distinzione tra bancarotta post-fallimentare e pre-fallimentare.
La prima ipotesi, infatti, non pone particolari problemi rispetto alla sentenza dichiarativa di fallimento – ora liquidazione giudiziale -, perché attiene a fatti compiuti durante la procedura di liquidazione, di tal che quella è ritenuta presupposto del reato.
La bancarotta pre-fallimentare, invece, ha posto il problema di qualificare la funzione della dichiarazione fallimentare rispetto alle condotte tenute prima.
In altri termini, si tratta di comprendere se le condotte elencate dal primo comma dell’art. 216 r.d. 267/42 abbiano rilevanza penale autonoma oppure se raggiungano la soglia della rilevanza penale solo “se è dichiarato fallito l’imprenditore” (rectius in stato di liquidazione giudiziale).
Tenendo ferma la dicitura precedente al Codice della Crisi di Impresa, con uno sguardo ai criteri distintivi della giurisprudenza e della dottrina, con l’uso della formula “se è dichiarato fallito” il legislatore sotto il profilo letterale e strutturale sembra aver fatto riferimento ad una condizione obiettiva di punibilità.
Ciononostante, la granitica impostazione giurisprudenziale, facendo leva sul criterio sostanziale attento al bene giuridico e all’idea che fondamento dell’istituto in parola sia da rinvenire nella dicotomia meritevolezza/bisogno di pena, ha deposto nel tempo nel senso di ritenere la sentenza dichiarativa come elemento costitutivo del reato.
Infatti, la dichiarazione di liquidazione giudiziale contribuisce a colorare le azioni distrattive del soggetto attivo col contenuto dell’offesa al bene giuridico: in altri termini, senza la prova che quelle condotte abbiano effettivamente arrecato pregiudizio ai creditori prima e al complesso sistema economico poi, le stesse non assumono una rilevanza penale tale da giustificare una reazione sanzionatoria dello Stato.
Va da sé come una simile soluzione conduce all’ulteriore problema dell’individuazione del nesso psichico, dovendo di principio la sentenza dichiarativa essere coperta dal fuoco del dolo.
Tuttavia, stante le evidenti e immaginabili implicazioni sul punto, che rendono la prova della coscienza e volontà di compiere atti di dissipazione patrimoniale nella consapevolezza di essere dichiarato poi fallito, la giurisprudenza ha adottato una soluzione compromissoria.
Infatti, sebbene elemento costitutivo del reato, la sentenza che dichiara la liquidazione giudiziale non è considerata elemento significativo del fatto, potendosi per questa via evitare la prova del nesso psicologico.
Conclusioni, riforme e prospettive.
Sebbene l’impostazione ermeneutica sia in giurisprudenza granitica, non possono tacersi i dubbi che la stessa lascia, appalesandosi come una soluzione compromissoria che non tiene conto a sufficienza delle aporie cui potrebbe dare luogo a una sua applicazione rigida.
Basti pensare, ad esempio, al caso dell’estensione del fallimento al socio occulto: portato alle estreme conseguenze, questa ipotesi potrebbe portare alla punibilità del solo socio non occulto, potendosi per l’altro ritenere il reato prescritto a talune condizioni.
Le discrepanze applicative cui dà luogo la considerazione della sentenza come elemento costitutivo, nonché la sottrazione ad nutum della stessa alla verifica del nesso psichico, inducono molti ad auspicare un revirement della giurisprudenza che tenda a qualificare la dichiarazione di fallimento come condizione obiettiva e che provi a superare lo scoglio dell’interpretazione letterale della norma in un’ottica costituzionalmente orientata.
Ultima chiosa si necessita per l’introduzione del Codice della Crisi di Impresa che ha sostituito il termine fallimento con quello di “liquidazione giudiziale” inducendo taluni interpreti a determinarsi nel senso dell’avvenuta abrogazione delle fattispecie penali di bancarotta.
Queste deduzioni non sono affatto percorribili.
Al contrario, l’indagine ermeneutica deve tenere conto della previsione della legge delega, secondo cui “il termine fallimento e i suoi derivati vanno sostituiti con liquidazione giudiziale […] ferma la continuità delle fattispecie criminose” (art. 2 comma 1 lett. a), in uno alla Relazione Illustrativa al Codice secondo cui “è garantita di fatto la continuità normativa, non consentendo la delega disposizioni che autorizzassero modifiche di natura sostanziale al trattamento penale riservato alle condotte contemplate dalla legge fallimentare”.
Nessun dubbio residua, allora, sulla continuità normativa delle fattispecie sin qui viste.