Sono
giorni difficili, questi, per l’Italia.
Sono
giorni in cui, più o meno forzatamente, stiamo tornando a una dimensione
casalinga che, come società civile, spesso rifuggiamo in conto di un risultato
da raggiungere da qualche altra parte, lì fuori.
Anche
per me questi sono i giorni del “ritorno”, il ritorno a quelle cose semplici
che, proprio perché tali, spesso, sono le prime ad essere messe in disparte.
Ma
un po’ di deformazione professionale resta. Un po’ di attitudine a leggere le
cose sempre secondo il quadro di conoscenze che uno ha è connaturale al mio
essere.
E
così, tra un discorso di una carica politica e un’altra sulla necessità – non
più opportunità – di restare a casa, sono tornata al mio primo amore: il
diritto penale.
Sì,
perché per me lo studio e la pratica del diritto penale sono sempre stati anche
una scuola di vita, per il loro innegabile legame con la vita reale, con le
libertà fondamentali.
Le
stesse che oggi, per un bene superiore come quello della salute, stiamo
sperimentando in edizione compressa.
Ascoltando
i moniti delle più alte cariche dello Stato mi è venuto quindi naturale provare
a indagare quale fosse la logica di questo estenuante ripetere #iorestoacasa e
#andràtuttobene.
E
così, subito, ho trovato non uno, ma ben tre criteri validi a sorreggere i miei
pensieri: il risk approach, il principio di precauzione e, infine, il principio
del maximin.
Il
contesto di riferimento è quello dei reati ambientali, presi in considerazione
dal Codice Penale, prima ancora che dal Diritto Penale di Impresa, ma che
proprio per via delle evoluzioni legate al mondo dell’impresa e alle esigenze
della produzione sono stati portati a più riprese all’attenzione della
giurisprudenza, prima, e del Legislatore, poi.
Dal
2015, infatti, il nostro ordinamento vanta una disciplina unitaria – se pur con
i limiti interpretativi che ogni novella porta con sé – in materia di delitti
ambientali, che è stata poi riportata più o meno pedissequamente nel catalogo
dei reati ex D.lgs. 231/2001.
La
genesi della nuova normativa è stata segnata dalla deprecabile prassi di
utilizzare la previsione del disastro ex 434 c.p. per attirare all’area della
sanzione penale le ipotesi del c.d. disastro ambientale.
Erano
gli anni dei disastri “Thyssenkroup” e “Eternit”.  
In
assenza di una previsione ad hoc, si
faceva ricorso alla fattispecie del codice Rocco, vedendosi realizzato il
pericolo per la pubblica incolumità attraverso alterazioni delle condizioni
ambientali tali da determinare concrete ricadute sull’integrità fisica e la
salute dei soggetti localizzati nelle aree interessate.
Integrità
fisica
e, soprattutto, salute. Beni primari che oggi divengono anche centrali,
e che, com’è giusto che sia, vengono portati all’attenzione generalizzata di
un’intera nazione.
Eppure,
questa tendenza all’arretramento della soglia del penalmente rilevante è
divenuta sempre più marcata a partire dall’accoglimento nel diritto penale del
principio di precauzione, che nasce, quale evoluzione ancor più sentita del
vicino principio di prevenzione, dalla necessità di leggere l’evoluzione
scientifica e i grandi rischi connessi all’evoluzione della società, ma anche e
soprattutto dei traffici commerciali.
Il
principio di precauzione, diversamente da quello di prevenzione, stabilisce un
criterio di gestione del rischio in condizioni di incertezza scientifica
ipotizzando i possibili effetti dannosi ipoteticamente collegati a attività,
installazioni, impianti e così via.
In
altri termini, pur in assenza di basi epistemologicamente fondate, il principio
di precauzione adotta misure preventive e cautelari fondate su un approccio
connesso ad un rischio, alla mera possibilità e ipotesi che un evento dannoso
possa determinarsi.
La
mente corre veloce ai grafici sulle previsioni di diffusione della pandemia e
sulla possibile crescita esponenziale dei contagi.
Questo
è il momento in cui entra in gioco il principio del maximin, ritenuto uno dei
fondamenti filosofici del principio di precauzione, secondo il quale “ogni
scelta da compiersi in condizione di incertezza va valutata in ragione della
peggiore delle sue conseguenze possibili
”.
Ed
ecco, allora, come nella mia mente la lettura di quello che stiamo affrontando
a livello di società civile, ha trovato la sua quadratura.
Quello
che ci stanno chiedendo in realtà non è poi così diverso dal modo in cui
dovremmo essere orientati a pensare nel nostro quotidiano, che siamo impegnati
in una realtà aziendale o in un contesto autonomo o pubblico.
In
questo momento siamo tutti accomunati dalla necessità di assicurare la
protezione del bene primario della salute.
Per
comprenderlo abbiamo gli strumenti della compliance:
ancor prima dei recenti provvedimenti adottati ad horas con specifico riguardo alla materia della sicurezza sul
lavoro, l’approccio di fondo alla base dei Modelli di Organizzazione e Gestione
ex D. Lgs. 231/2001 e del Sistema di Gestione Privacy passa per la logica del
risk approach, che rappresenta e dovrebbe rappresentare un approccio alla
disciplina dell’attività di impresa, per una crescita sana e virtuosa.
Per
giustificarlo abbiamo il principio di precauzione che, nasce nel diritto penale
in materia ambientale, trova un aggancio normativo a livello sovranazionale
all’art. 191 del TFUE e ci aiuta ad accettare logicamente che quello che ci
viene chiesto è l’unica soluzione possibile.
Per
andare avanti abbiamo il principio del maximin che, è vero che ci porta a
pensare al peggiore degli scenari possibili in un mondo pieno di  stimoli esterni volti alla positività del
pensiero, ma che certamente rappresenta anche la chiave di volta dell’intera
prospettiva.
Siamo
tempestati da messaggi rassicuranti sul fatto che andrà tutto bene.
Beh,
io questa certezza non la ho, ma so per certo che più in là del peggiore
scenario possibile non c’è nulla.
E si
può solo risalire.

Per
cui, buona quarantena a tutti e non distraiamoci.

2 Replies to “Preferisco il diritto penale perché mi tiene più vicina ai miei sogni.”

  1. conveniente intuizione!

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